Molti monaci orientali emigrarono dall’Impero bizantino e giunsero in Sicilia, Calabria, Lucania e Campania già nella prima metà del secolo VI, a causa delle invasioni slave nel golfo di Corinto. Successivamente altri religiosi, a seguito delle prime invasioni arabe, si spostarono dalla Siria, dalla Libia, dall'Egitto. Nel secolo VIII, furono le persecuzioni iconoclaste scatenate, nel 726, dall'imperatore bizantino Leone III Isaurico e, nel 754, dal figlio Costantino V, a provocare ulteriori diaspore.
Già VI secolo, è attestata nel Sud della penisola italiana la prima presenza di alcuni monaci bizantini che, con la funzione di "cappellani militari", avevano seguito le truppe del generale Narsete durante la guerra greco-gotica.
Altri monaci scelsero il Meridione d’Italia e la Sicilia sia perché considerati territori dal clima mite con caratteristiche geo-fisiche e morfologiche favorevoli e sia per ragioni culturali, come il perdurare dell'uso della lingua greca. In questi luoghi iniziarono a praticare tutte le forme di vita ascetica e rimasero fedeli al messaggio cristiano secondo la tradizione orientale della quale erano testimoni e promotori. Queste comunità monastiche diventarono ben presto dei catalizzatori di sviluppo economico e sociale e punto di riferimento per le popolazioni autoctone, che si affidarono a loro per trovare sostegno materiale e conforto spirituale. Esse, nel corso dei secoli, hanno contribuito moltissimo a salvare anche l’immenso patrimonio umanistico e scientifico della nostra Isola.
Il Monachesimo nell’Italia meridionale e in Sicilia ha avuto, pertanto, origini greche e ha guardato sempre a Costantinopoli come sua naturale fonte di ispirazione storica, culturale, religiosa e spirituale. In Sicilia, nei cinque secoli che intercorrono tra Gregorio Magno e l’età della dominazione normanna, tutte le esperienze monastiche possono, infatti, considerarsi di ispirazione orientale e gran parte dei monaci presenti nei Monasteri parlava la lingua greca.
Il principale esponente del Monachesimo italo-greco è San Nilo da Rossano (Rossano, 910 – Tuscolo, 26 settembre 1004) che dalla Calabria ha risalito la penisola sino al Tuscolo, vicino Roma. Subito dopo la sua morte, nella zona di Grottaferrata, il suo discepolo prediletto San Bartolomeo il Giovane (Rossano, 981 – Grottaferrata, 1055) ha fondato nel 1004 il Monastero dedicato a Maria, la Madre di Dio, ad oggi l’unica comunità vivente in Italia di monaci di rito orientale che si ispirano a San Nilo.
Le fonti scritte ricordano tre forme di monachesimo italo-greco: esso è, in origine, eremitico e il monaco vive nella più totale solitudine, diventa, quindi, lavriotico e, infine, è cenobitico quando il monaco vive nel cenobio, dal greco κοινόβιον, comp. di κοινός «comune» e βίος «vita», sottomesso all’autorità di un superiore (l'Egumeno) e condivide tutto con i suoi fratelli.
Tra VIII e IX secolo in Italia meridionale erano presenti numerosi monasteri bizantini, a cui si aggiungono grotte, laure e postazioni eremitiche poco conosciute. Le lavre o laure, celle monastiche, spesso rupestri, dislocate intorno ad una chiesa e ad ambienti comuni, consentivano ai monaci di condurre, pur all'interno di un cenobio, una vita eremitica. Nelle biografie dei santi monaci, la “solitudine rocciosa” veniva considerata, infatti, il più alto livello di perfezione umana, ottenuta tramite la segregazione dal mondo, una sorta di resistenza quotidiana alle tentazioni e al Male.
Il principale esponente del Monachesimo italo-greco in Sicilia è Sant’Elia il Giovane o di Enna (Enna, 822-823 – Salonicco, 17 agosto 903), il primo con una biografia certa e ben descritta a differenza del coevo San Cremete, santo monaco anacoreta che si venera a Francavilla di Sicilia.
Nel secolo IX, quando la Sicilia cadde sotto il dominio degli Arabi, il Monachesimo di rito greco dell'Italia meridionale, ancora di tipo eremitico e lavriotico, si riduce ad un’esigua minoranza tollerata.
All’arrivo dei Normanni, dal 1061 in poi, si ebbe una fioritura dei cenobi. Artefici della ricristianizzazione, questi usufruirono di privilegi e immunità e poterono gestirsi liberamente anche grazie alle donazioni concesse dai nuovi dominatori, i quali lasciarono piena libertà all’elemento greco, segno della loro supremazia nei rapporti con la Chiesa di Roma. I Monasteri greci in Sicilia sono stati, infatti, entità economicamente autonome; avevano terreni, orti-giardino e sistemi di approvvigionamento idrico per le varie esigenze e per la coltivazione della terra; i monaci erano anche colti e preparati e per questo venivano scelti da Pontefici, Vescovi e signori locali come consiglieri o ambasciatori.
Si ebbero, inoltre, diverse nuove fondazioni o ricostruzioni di enti monastici in rovina, almeno fino al 1131, quando venne creato, per volontà di Ruggero II, su suggerimento di San Bartolomeo di Simeri (Simeri, 1050 circa – Rossano, 19 agosto 1130) l’Archimandritato del Santissimo Salvatore, una grande Confederazione di 60 monasteri, con sede proprio nel Monastero del Santissimo Salvatore in "lingua phari" (letteralmente nella lingua del faro) di Messina, nella zona falcata, la cui costruzione è iniziata nel 1131. La massima autorità era l’Egumeno (l’equivalente dell’Abate dei monasteri latini): fondatore e primo Egumeno è stato San Luca Archimandrita (Rossano, XI secolo – Messina, 27 Febbraio 1149), ex monaco di Santa Maria del Patir, trasferitosi in Sicilia assieme ad altri dodici colti monaci di Rossano.
Facevano parte dell’Archimandritato, nel versante jonico, i territori di Savoca, Casalvecchio, Pagliara, Locadi, Antillo e Misserio, Alì, Forza d’Agrò, Mandanici, Itala, nel versante tirrenico, S. Gregorio (di Gesso), Salice e S. Angelo (di Brolo) e negli anni a seguire altri monasteri e ricchi feudi.
Nel 1874, grazie all’interessamento dell'archeologo Antonino Salinas, direttore del Museo Archeologico di Palermo e ai restauratori Giuseppe Patricolo e Francesco Valenti, i monasteri italo-greci del Valdemone sono stati catalogati, studiati e restaurati. Gli edifici sono stati liberati dalle superfetazioni successive e dagli intonaci, isolati dai volumi che gli erano stati addossati, al fine di rendere visibili le nude superfici murarie con le loro tessiture.
Questi siti sono elencati dall'abate Rocco Pirri in "Sicilia Sacra", testo pubblicato nel 1643 e considerato la fonte più prestigiosa della storia delle Chiese di Sicilia.